Marx à rebours – ultimo capitolo della trilogia iniziata con Philosophie à outrance (E.M.E., Bruxelles 2010) e proseguita con Métaphysique de la destruction (Peeters, Leuven 2012) – si inscrive nella più recente produzione teoretica di Bruno Pinchard, orientata all'articolazione di un pensiero metafisico capace di comprendere il mondo globalizzato contemporaneo, analogamente a quanto tentato da Martin Heidegger con la sua Lettera sull'umanismo al tempo della bomba atomica.
   Sennonché, secondo Pinchard, il pensiero heideggeriano testimonierebbe di un'epoca che non ci appartiene più, dal momento che, oggi, la questione della tecnica, lungi dall'inscriversi nella prospettiva della finitudine e della fuga degli dei, appare soppiantata dall'allargamento del mercato a tutto il globo, nel segno di un infinito che, lungi dal coincidere con una realtà perfetta e immutabile, appare piuttosto come un «un infini de production en vue de la circulation» (p.11), o – per dirla con la formula di Philosophie à outrance – «comme un pouvoir sans nom qui se confond avec l'effacement des formes et des limites dans la transformation planétaire des échanges» (p.9).
   Ecco perché Pinchard ritiene di dover rovesciare il progetto filosofico heideggeriano: mentre per Heidegger si tratta di distruggere la metafisica per aprire il pensiero a un nuovo inizio, per Pinchard  proprio la metafisica è chiamata a dare forma allo scatenamento del divenire sotto le leggi della totalità: «En voulant  rompre avec la métaphysique de la cause au profit de l’Ereignis», Heidegger «nous laisse fondamentalement dépourvu devant le monde de la production concrète et de ses causes» (p. 24).
   In altre parole, Heidegger avrebbe avuto il merito di vedere come la razionalità moderna sia una «rationalité partielle», “fondata” sul concetto di produzione, ma non avrebbe compreso come questa parzialità  sia qualcosa che, lungi dall'appartenere al solo pensiero calcolante, qualifica la ragione in quanto tale. Motivo per cui, secondo Pinchard, rispetto a tale incompletezza, si tratta di «déterminer les mythes qui structurent un discours rationnel au-delà des raisons qu’il avance» (p. 37). - Qual è, dunque, il mito che sostiene la razionalità moderna?
  È a partire da queste premesse che può essere compresa l'originalità di un'opera complessa e articolata come Marx à rebours, un'opera polifonica, dai mille rimandi, capace di far dialogare Marx con pensatori come Vico, Rabelais, Hegel e Balzac. Infatti, il Marx di Pinchard non è il Marx messianico della vulgata militante o rivoluzionaria. Piuttosto, è un Marx metafisico e “mitologizzante”, vale a dire un Marx che rende possibile ciò che manca a Heidegger, e più in generale al pensiero contemporaneo “accademico” (dallo spiritualismo all'esistenzialismo, passando per la fenomenologia): «penser la totalité» (p. 47), vale a dire: pensare la potenza strutturante che unifica il mondo contemporaneo sotto il segno della totalità, ponendo le «catégories du monde moderne» e offrendo  «une vue logique sur les destructions en cours» (p. 10). In altre parole, Marx, con il Capital, «restitue une vision terrible, mais unifiée du present» (p. 191).
   Lungi dal lasciare queste distruzioni senza essenza e senza forma, Marx ci permette di comprendere la logica che le sostiene, motivo per cui si può interpretare il Capital – che «nous apprend à fonder notre discours sur le caractère substantiel de l’argent et [...] établit des règles de prédication à partir de ce fondement catégorial» – come «l’Organon d’une Métaphysique future qui tarde depuis plus d’un siècle» (p. 10).
    Quando Pinchard parla di metafisica in rapporto a Marx, occorre essere consapevoli che egli non sta affatto “rispolverando” delle banali tesi à la Popper. Leggere metafisicamente Marx, infatti, non significa compiere una qualche operazione di retroguardia o di restaurazione, quanto piuttosto riconoscere nella sua opera l'istanza metafisica del pensiero – istanza volta all'inversione delle posizioni rigide e fossilizzate per ricomprenderle alla luce delle leggi della totalità. Il problema sta evidentemente nell'articolazione dell'idea di totalità in un'epoca che sembra non volerne sapere. L'originalità della proposta teoretica di Pinchard sta probabilmente nell'aver risposto a tale problema convocando, nella sua interpretazione di Marx, l'idea di mito.
   Come è noto, l'individuazione del mito nella recezione di Marx non è nuova: da Sorel a Sartre, passando per Lenin, il marxismo è stato letto perlopiù come una mitologia per l'azione. Tuttavia, nota Pinchard, è in tutt'altro senso che nell'opera di Marx è presente la questione del mito. «J’appelle mythe chez Marx la capacité d’une illusion à se faire centre de toute manifestation. Marx a un autre nom pour dire ce mythe, c’est fétichisme. Mon Marx est le Marx du fétichisme» (p. 35).
  Il mito, secondo Pinchard, indica una struttura di linguaggio irriducibile all'intenzionalità umana, che non porta la ragione della propria esistenza con sé, ma che ordina la contingenza nel continuo di un mondo possibile, offrendo una serialità agli stati discreti della manifestazione. Se il mondo esclude ogni principio primo, esso deve avere almeno un mito che lo governi. Così, il grande merito di Marx starebbe nell'aver portato a coscienza di sé il mito che governa il mondo moderno, il mito del Capitale: «Ce mythe porte sa part de mort et de destruction, mais c’est lui qui donne sens aux actions des hommes aux prises avec la production et il devient la forme de totalisation de l’expérience à laquelle ils peuvent accéder» (p. 42).
   Ciò che sfugge alle letture militanti di Marx è che non si può leggere il mito a partire dall'uomo senza farne un'ideologia o una tecnica; al contrario, occorre pensare l'uomo a partire dal mito, una potenza impersonale capace di prendere coscienza di sé attraverso gli individui che ne sono investiti e che, al tempo stesso, diventano soggetti nella misura in cui partecipano a tale presa di coscienza del capitale: «Nous qui n’avons plus de révolution à prédire, mais seulement une suite ininterrompue de destructions, nous pouvons nous contenter de montrer comment le processus de l’argent résulte d’un rapport social inconscient qui prend la forme attirante d’une malédiction fondatrice dans laquelle chaque individu est appelé à se réaliser. Ainsi les individus ne deviennent-ils les sujets du libéralisme que par une adhésion commune aux prouesses mythologiques de l’or» (p. 35).
   Diversamente da quanto pensa Sartre, Pinchard ritiene che «le marxisme enseigne que c’est le capital qui fait le sujet, jamais la liberté» (p. 60). Per lo stesso motivo risultano inadeguati i tentativi di leggere Marx per mezzo della fenomenologia: tutti i concetti portanti della fenomenologia – intenzionalità, dono, epoché – rendono impossibile la tematizzazione di quello che riassume il fondamento mitologico del capitale: il feticismo del denaro. «L’argent est l’agent de dépersonnalisation. C’est par l’argent que la volonté des individus devient structure. C’est par l’argent que le procès, qui rassemble en lui tous les sujets, se fait sans sujet. Dans le capitalisme, nous entrons dans le royaume du SANS» (p. 92).
   Sul punto risultano decisive le illuminanti pagine che Pinchard dedica all'analisi della formula marxiana del plus-valore. Nello schema A-M-A' ci troviamo davanti al movimento infinito del denaro, che fa delle differenti determinazioni intramondane il mezzo del proprio auto-accrescimento. Tale movimento non lascia nulla fuori di sé, poiché parte dal denaro e termina nel denaro. In questo senso, lo schema A-M-A' rappresenta la vera prova ontologica, la logica propria del denaro in quanto causa sui e  «de toute existence» (pp. 11, 95, 111). «La Cause de soi introduite au coeur des analyses du Capital est donc ce module théologique qui commande non seulement aux illusions religieuses, mais encore, du même pas, aux formes du capital et aux formes de sa contestation» (p. 194).
   Ecco allora in che senso, per Pinchard, il Capitale è l'Organon della metafisica della distruzione di cui oggi abbiamo bisogno. Se al centro della metafisica è la questione dell'infinito, allora oggi più che mai diventa necessario avvicinare il mondo da un punto di vista metafisico: l'infinito si è effettivamente realizzato nel «mauvais infini du capital, [...] la répétition par laquelle A’ devient un nouveau A» (p. 96). L'infinito del mondo moderno è un infinito di distruzione, dal momento che, sotto la pressione della circolazione, tutte le strutture della realtà entrano in una distorsione permanente. «Cette fluidité c’est l’irruption de l’infini dans la circulation sociale» (p. 102). Il nostro quotidiano, i nostri affari, i nostri fini: tutto viene consumato – aufgehoben – in questo automovimento del Capitale, in questa «Harmonie préétablie de la destruction» (p. 155).
   Attenzione, però. Come l'Organon non risolve in sé la Metafisica, così Marx non rappresenta l'ultima parola della Metafisica della distruzione. Certo, Marx ci fa vedere il portato di distruzione dell'infinito in atto. Tuttavia, lo scambio mondiale, l'allargamento dei mercati fino a comprendere la Cina, ci pone di fronte all'urgenza di una questione che Marx non poteva affrontare: la questione di una lingua comune sottomessa alla metamorfosi infinita dei popoli e delle culture. Insomma, dopo Marx, sembra dirci Pinchard nelle pagine conclusive del suo potente lavoro, è giunto finalmente il momento di tornare a leggere Rabelais.